IL PAESE, LA MEMORIA

120 anni di vita a Castronuovo S. Andrea 1865 - 1985

Comporre reperti, associare brandelli, accostare frammenti, ma i vuoti prevalgono sui pieni: una vita è fatta per lo più di margini bianchi, di silenzi irreparabili, di parole non dette e non dicibili. (J. V. Trifonov).

Questo volume raccoglie fotografie di Nicola Appella (Castronuovo), Alessandro, Paolo e Giuseppe Appella (Roma), V. Belrlino Studio (Philadelpia), Foto Celere G. Amendolara e G. Carluccio (Senise), A. Caputo Art Studio (New York), De Christopher Studio (Allento Wn), Alessandro Di Pierro (Castronuovo), G. Mazziotta (Messina), Celeste Mobilio (Castronuovo). Philip A. Pisillo (Boston), Salvati (Castellammare), Luigi Travascio (Castronuovo), Nicola Vita (Roma) e di tanti anonimi che ci aiutano a ritrovare il personale «tempo perduto». L'infanzia è un vestito ricamato che indossi appena lasci la curva finale che immette nel paese natio dove ogni pietra è una fetta di pane, tra il sorriso dell'ultimo mietitore che arrota la falce e il belato dell'agnello che corre dove il sicario lo guida. Si riaprono davanti a te, come balconi, le strade delle oziose passeggiate serali, i vicoli che raccolsero le prime urla nel gioco ardito dei grandi; ti prepari a cucire desideri come la rondine con la spina dei cardi, a rimettere insieme frammenti di una storia che non ha pagine bianche, fatta di nuvole, di vento, di polvere, di precipizi, di sassi, di torrenti, di zolle aride, di ginestre, di tronchi maceri, di formiche, di alveari: la nenia del passato che assedia tutte le note sotterrate nei territori della memoria e i debiti che ognuno di noi ha con il piacere e il dolore dei destini di chi è rimasto in paese. Ti accorgi che questo paese ti ha inseguito ovunque col suo rifiato e i cento luoghi della propria infanzia ognuno se li è portati legati al fazzoletto. Si sfarinano nel cimitero le croci di legno del popolo di formiche, mentre tra i castagni il fumo denso delle «feliciate» aggruma riti antichissimi. Sbiadiscono sulle lapidi i volti dei vecchi che hanno meravigliato i nostri primi anni: medici e farmacisti, notai e preti, maestri e artigiani, contadini: don Camillo, don Tommaso, don Vitino, don Silvio, don Ciccio, don Agostino, don Celeste, zio arciprete; compar Nicola, Prospero, Andrea il sacrestano, Salvatore che partì per l'Argentina con la falce e l'accetta nella valigia di cartone, Muzzurone lettore di Bibbia e mani abili a formare barili e «galette», l'elettricista e il fascino di un telefono nella cabina «dietro il giardino» ora stravolto da muri e casoni, il mezzadro di Santa Maria e quello di Mastrociardo, il ragazzo di Battifarano per le lunghe corse tra paglia e farfalle e le notti sul salice a sognare le antiche necropoli. Zinnozinno e Pataniello, Pacchialonna e Zanzanella, Zirillo e Cuzzigno, Frisella e Strimbone: un vocabolario di soprannomi e nomignoli che segnano secoli di abitudini e pregiudizi, di orgogli e timidezze, di obbedienze ed inganni.Perché è ferma nella nostra memoria l'immagine di Fimuccia raggomitolata su se stessa, le mani chiuse in grembo a serbare desideri inespressi? E del fidanzato di Luisa che si esercitava con la tromba in note forti e aspre, nostalgiche e minacciose, che richiamavano piazze lontane, locali semibui, coppie allacciate già intraviste su « L'Illustrazione Italiana »? E di Mincuccio, solo, la mano poggiata sullo stipite della porta, occhi mansueti a porgere un saluto e un sorriso e a ricevere pane e formaggio? Spezzava il pane come un apostolo, ne dava una parte a Concetta, fermava il suo pezzo tra due dita: le molliche venivano risucchiate dalla bocca come una preghiera sottovoce. E Matalena? A ogni insulto lanciava un urlo, lungo e straziante, mostrava il braccio intaccato da lunghe cicatrici, e si mordeva, si mordeva, a dirci di lasciarla in pace, che non era pazza, che solo lei sapeva il suo destino e il mistero della sua casa. Un giorno furono trovate sulla porta unghie spezzate, brandelli di pelle, come se un animale infero- cito avesse a lungo raspato su quel legno.E don Tommaso? La sua voce e le sue domande, i suoi sorrisetti, esprimevano un autentico disprezzo. Nella sua cucina col grande tavolo al centro la distanza tra il camino e l'uscio sembrava lunga come il mio perenne imbarazzo. Sui sedili di pietra del Castello posava al suo fianco il bastone come una tavola divisoria. Don Agostino tirava sulle ginocchia la sottana, stringeva gli occhi, incrociava i piedi e guardava il mondo con comodo. Don Vitino nascondeva la sua intelligenza sotto sardoniche ironie e distaccati abbandoni. Compar Ciccio, nel bel mezzo di un discorso, sfuggiva ai luoghi comuni stropicciandosi gli occhi e lanciandosi in un birignao che spiazzava maestri e contadini. Il notaio D'Amelio si beava di una corte di postulanti e di clienti che sognavano sconti di parcella con canestri di uova e anatre starnazzanti. Quale era la differenza tra un pantalone cucito da Ernesto Curcio e Andrea Pacchialonna, da Pasqualino Vita e Nicola di Pierro? Nessuna. L'uno l'avrebbe indossato il « signore », l'altro il « cafone ». Chi fermava meglio il punto tra tomaia e suola: Alessandro Cordoncelli o Gennarino Vuttafuoco? Ecco la Manca: trionfo di architettura popolare che ha conosciuto solo il capomastro e la calce, vita di vicoli ricchi di voci e occhiate furtive, ferri da maglia e sospiri, sedie di paglia a cerchio sugli usci aperti al fresco delle sere estive nelle lunghe orazioni a occhi chiusi, attese alla fontana seduti sui barili, lanci di petali sui santi delle stagionali processioni, confetti e commenti sulle serpentine file a due dei matrimoni, battenti socchiusi allo spirito del silenzio padrone dei funerali.
Ora, tutto tace. Le voci sono andate a perdersi nel coro anonimo di strade forestiere dove la fatica si chiama lavoro, da Brooklyn a Soho, da Maximilianstrasse a Stradella. Nei camini, anche d'estate, non brucia più fuoco di sarmenti.
Dov'è finita la fisarmonica del venditore di fortuna, un pappagallo e tanti destini a dieci lire il foglio? E la grande cesta di vimini colma di tazze e ventagli multicolori, di tut- ti i messaggi di un mondo che lentamente si è impadronito della civiltà del coccio? E il gesto del lampionaio che con la sua lunga canna segnava il sorgere e il tramontare del sole dando o togliendo luce a piccole case di vetro? E il grido dello stagnino pronto a ringiovanire con un velo d'argento pentole dimenticate? E il racconciatore di ombrelli e di piatti, il « sanapurcielle »?.. Linguaggi, mimiche, tecniche come mastice di umanità. La grande casa, urna di voci e di canti lontani, è vuota. Cigolano le scale di legno che portano alla soffitta dei primi sogni, ti inseguono colmi di rimprovero gli occhi dei parenti dai grandi ritratti sulle pareti, la voce dell'usignolo ripercorre i fili della vecchia radio, dalla cornucopia dipinta sul soffitto la fanciulla velata, ironica e beffarda, continua a rovesciare fiori e frutta. Nessun volo di colombi sulla torre sbrecciata, negli orti le erbacce hanno vinto le rose e i gigli, il ribes e il filare d'uva, le tre piante di carciofi e il fico troiano, la botte con le pannocchie, i pozzi colmi di sassi. Le rasce, stinte, cadono dai portoni senza più padrone. Da quei balconi, il cielo era un guscio, la montagna un orco sdraiato che riposava e le nuvole uno zoo popolato di animali sconosciuti. Le tempeste si misuravano dal lungo getto d'acqua che si dipartiva dalla casa della «'Farnatella » e il crocifisso, staccato in capo alletto e deposto sulla strada, bastava per allontanare la grandine. Il pane lievitava per un segno di croce, il campo si riempiva di grano per una benedizione, le malattie sparivano con un impacco di malva, l'acqua diventava fredda nella «lancella» posta sul davanzale della finestra di ponente, il sapone induriva sulle tegole, serti di peperoni arrossavano alle ringhiere, pere spadone maturavano sotto i letti, la cenere bollita nell'acqua imbiancava i nostri panni, le luci accese o spente del salotto buono misuravano gioia e dolore, la vecchiaia era una lunga sosta inanimata davanti al camino, la vanità e la superbia erano i parenti che giungevano d'estate e si guardavano nei grandi specchi scuotendo i capelli, adocchiandosi con piacere, incipriando facce, dipingendo labbra, ritoccando ciglia con le punte delle dita. Nel torrente di polvere che scorre lento lungo le verdi tracce degli orti indorati dal giallo fiore di zucca, prende voce, ampliato dal megafono, il richiamo biblico di don Agostino a due monelli proni sui cocomeri del «campo avvelenato».
I monelli, a cavalcioni di lunghe canne, marciano nel vento, lungo i fossi, rigando le sabbie asciutte; inseguono gli stecchi nella pigra corrente del torrente, si nascondono sul grande gelso e riappaiono nello spiazzo dove il sorbo ha punteggiato di frutti maturi il terreno che disordinati colpi di falce ha riempito di pannocchie ancora verdi. Rotolano lungo il pendio, nell'erba folta sotto le grandi querce, avvistano teneri asparagi tra spinosi cespugli, schiacciano sui bassi muretti i fiori dell'inchiostro e scrivono sulle porte delle stalle. I voli dei pipistrelli spaccano l'urlo dello « scancaruolo » lungo i dirupi odorosi di acacia; nelle grotte intessute di fitte ragnatele pistole di legno simulano sibili e spari tra guardie e briganti, la lucertola segna la sua morte, pancia in su, distaccandosi dalla coda che guizza sul sentiero pietroso. Giungono, dall'unico bar, i rimbalzi secchi delle palle da biliardo mentre nella piazza delle case cadute occhi ardenti e capelli arruffati guidano una mano nello slancio dell'ultima «staccia» sulla buca colma di monete. Si tende la fionda carica verso il birillo di vetro che regge i fili elettrici sui lunghi pali che fermano le ascese con un perentorio «chi tocca i fili muore». Chi farà salire più in alto il barattolo interrato sulla buca dove il carburo si sta sciogliendo nell'acqua? Chi raccoglierà più confetti tra le gambe di spose esitanti e pallide? Riuscirà, Nerone, a mantenere il tempo battendo con la pesante mazza sul pezzo incandescente che mastro Vincenzo ha appena poggiato sull'incudine? Quale testa saggerà il primo colpo di zufolo la notte di Natale, quale mano afferrerà il piccolo aerostato lanciato in un rosso tramonto di festa, quale piede riuscirà a farsi lavare dall'arciprete nei giorni della Pentecoste? Suonano, a distesa, una allegra tarantella, le campane della Chiesa Madre, scivola veloce e leggera la madia fatta slitta sulle strade gelate della Manca, ritorna dalla campagna «u' maghère» con il cappello rivoltato pieno di fichi, zio Vincenzo Pedale racconta la sua America e cancella i nostri mal di testa spremendo scintille dalla pietra focaia.La morte, come la nascita, ha i suoi simboli. La testa di maiale, arancio in bocca, sul davanzale gelato, segnala la fine di un'alba cruenta; le corna del caprone, all'ingresso della macelleria, calano il sipario su una pubblica esecuzione. Il Parco della Rimembranza enumera le generazioni dai dondolii delle catene tese tra quattro bombe intorno al cippo con una lapide mai letta, e le cicale a frinire sui rami del fico. Le case popolari conservano con distacco il medesimo colore di un tempo; dove finisce il paese, al «Trappeto», a fianco della cappella delle novene di settembre accompagnate dai pochi rintocchi dell'orologio in piazza, c'è ancora chi ferra asini decrepiti mentre riprende volto l'odore della farina e dell'olio, del tartaro raschiato dalle botti, e il frizzante ardore della pigiatura, l'afrore delle vecchie vinacce, il brivido del «monaciello» dal rosso berretto tra le mura delle case cadute. La vigna non c'è più. I pioppi si sono piegati su un fianco. Le montagne-monumento sono crollate come quinte di un teatro; hanno cancellato stalle e cantine, il giardino col vecchio ciliegio, il gelso e i sambuchi, perché ci fosse un'altra vita da dedicare a botanica e geologia, per parlare di erbe cilestrine e di rocce. Un verde intenso ora copre tutto, anche il vecchio campo sportivo e i profumi di origano e nepitella, di aranciata a pochi soldi il bicchiere, di cocomero spaccato dopo ore di sosta nell'acqua gelida della fonte che la frana non ha risparmiato. Le lunghe polverose passeggiate tra due ali di rovi carichi di more, l'aia dalla quercia centenaria dove il maestro saggiava all'aperto il gusto degli schiaffi e il disgusto della pedagogia, la casa viola, si in anellano ora nelle curve della strada per Senise, nel fosso della Cerasia che si fa amico il Serrapotamo per arrivare al Sinni. Il Pollino, di qui, nelle lunghe notti di plenilunio, sembra più lontano delle colonne d'Ercole.
Ecco, i nodi del fazzoletto sono stati sciolti. Castronuovo, S. Andrea dal nome del santo teatino che vi nacque nel 1521, tremila abitanti pronti a imbarbarirsi per il calcio, la politica e un fatto di cronaca, a sopportare le lacerazioni e le contraddizioni de11'emigrazione, attraverso le immagini di cento anni di vita rilegge le pagine di una cultura antica, la foresta di simboli e rituali, i temi della labilità e della morte, gli oggetti e le strade domestiche, quasi fossero tutta la vita dell'universo.
Sotto le grandi acacie del Castello, mentre la zampogna fa comunella con lo zufolo che si muove sui prati della Spadarea, la fotografia lega ogni cosa istintivamente, ne fa un linguaggio per la celebrazione di uno dei momenti più alti di vita collettiva. Utile, ancora una volta, a riconoscere tutte le cose dalle quali, al bivio, non ci siamo fatti distrarre.

Giuseppe Appella