"Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde". Così scriveva nel 1910 Wassily Kandinsky nel suo libro Lo spirituale nell’arte, un libro che – si è detto – insegna il suono interiore dei singoli colori

 

Paesaggi e scorci urbani tra surrealismo e iperrealismo

L’universo a colori di Franco Fontana

Cinquant’anni di carriera in mostra al Palazzo Franchetti di Venezia

****“Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde”. Così scriveva nel 1910 Wassily Kandinsky nel suo libro Lo spirituale nell’arte, un libro che – si è detto – insegna il suono interiore dei singoli colori, molto utile per tradurre le proprie necessità interiori con l’uso del colore; nella pittura come in altre forme d’arte, prima – forse - fra tutte la fotografia. A questo aforisma, scritto oltre mezzo secolo fa’ dal grande maestro dell’astrattismo (secondo il quale l’effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono), ci richiama la ormai la ricca e coerente ricerca fotografica, ultracinquantennale, di Franco Fontana (Modena, 1933), dedicata, fin dagli esordi nel 1961, all’espressione astratta del colore, svolta in un periodo in cui l’astrattismo in fotografia era da ricercarsi esclusivamente nel bianco e nero, e protrattasi fino ad oggi in una inedita e originale analisi, utilmente “provocatoria”, del paesaggio, sia naturale che artificiale, alla caccia di nuovi segni, strutture, superfici cromatiche corrispondenti alla sua fantasia creativa.

****I suoi sono colori accesi, brillanti, talmente vibranti da apparire irreali (o meglio, surreali); composizioni ritmate da linee e piani sovrapposti, geometrie costruite sulla luce, paesaggi e scorci urbani iperreali, sospesi in una dimensione atemporale, “astratti” da ogni contesto storico, avulsi da ogni riferimento concreto e riconoscibile a quella che si chiama “realtà”; infatti ha detto: “Io credo che la fotografia non debba documentare la realtà, ma interpretarla. La realtà ce l’abbiamo tutti intorno, ma è chi fa la foto che decide cosa vuole esprimere. La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo”.

Dalla Galleria Fotografica

****Con il titolo “Full color” (catalogo Marsilio) viene proposta, a cura di Denis Curti,  e promossa dall’ Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti a Venezia, nelle sale di Palazzo Franchetti in Campo Santo Stefano, la prima grande retrospettiva dedicata al maestro modenese, con una selezione di centotrenta foto, a cui è affidato il compito di raccontare l’intera vicenda creativa più che di un “fotografo”, di un “artista” che si avvale dell’originalità del  mezzo, dell’autonomia del linguaggio e delle risorse tecniche della fotografia. A partire dall’esperienza nata e maturata nella sua città, animata negli anni ‘60 da artisti di matrice concettuale, seppure ancora agli esordi, come Franco Vaccari, Claudio Parmeggiani e Luigi Ghirri. Come scrive Curti, “il processo di proiezione delle proprie emozioni sul paesaggio comporta una sua ridefinizione in chiave antropomorfa e, contemporaneamente, libera il lato creativo del fotografo, nella consapevolezza della differenza tra realtà e verità nel campo della rappresentazione”.

****Il lavoro di Franco Fontana condivide con questa corrente il bisogno di rinnovamento e di messa in discussione dei codici di rappresentazione ereditati, in campo fotografico, dal Neorealismo, ma pone particolare attenzione e cura anche agli esiti visivi e alla componente estetica della sua ricerca. Nel 1963 avviene il suo esordio internazionale, alla 3a Biennale Internazionale del Colore di Vienna.

Nelle fotografie di questo primo periodo si vedono in nuce alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti distintivi. Soprattutto, c’è una scelta di campo decisamente controcorrente rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi: è stato tra i primi in Italia a schierarsi con tanta convinzione e fermezza, per il colore e lo rende protagonista, non come mezzo ma come messaggio, non come fatto accidentale, ma come attore. E’ attratto dalla superficie materica del tessuto urbano, da porzioni di muri, stratificazioni della storia, dettagli di vita scolpiti dalla luce. Come fosse un ritrattista, Fontana mette in posa il paesaggio. Il suo occhio fotografico ne sceglie il lato migliore con la consapevolezza che la fotografia, con il suo tempo di posa, gli obiettivi e i diaframmi, vede il mondo diversamente dall'occhio umano.

Nel 1978 Franco Fontana scatta un’immagine-simbolo del suo repertorio, a Baia delle Zagare, in Puglia: una composizione pulita, ritmata da fasce di colore, giocata su pochi toni cromatici, essenziale, sintetica, che sarà impiegata per una campagna del Ministero della Cultura Francese. Nel 1979 intraprende il primo di una lunga serie di viaggi negli Stati Uniti: Fontana non approda a nessuna rivelazione, bensì applica il suo codice linguistico, ormai consolidato, a un ambiente urbano altro, rispetto alla sua Modena, ma non per questo alieno o incomprensibile.

****Qualche anno dopo, nel 1984, inizia la famosa serie “Piscine”: porzioni di sinuosi corpi di donna (e a volte d’uomo), esaltate da colori squillanti, in uno spazio conchiuso, sospeso, di cui spesso non vediamo i confini. Nel 2000 inizia la serie dei Paesaggi Immaginari, in cui l’invenzione sul reale arriva ai massimi livelli, rendendo chiaramente manifesto il sottile inganno teorico sotteso alla produzione precedente. In questo caso, il fotografo, che non disdegna la tecnologia digitale, riafferma la propria libertà interpretativa della realtà tramite l’immaginazione. La sua lunga carriera è costellata di riconoscimenti, premi e onorificenze in tutto il mondo, sono più di quattrocento le mostre in cui sono state esposte le sue fotografie e più di quaranta i volumi pubblicati. Fontana, ci dice ancora il curatore della mostra, “sfruttando il potere trasformativo della macchina, ha elaborato un linguaggio visivo dai caratteri distintivi, complesso nella sua apparente semplicità, in cui si coglie, fortissima, la forza vitalistica e creativa del fotografo, che, nel prelevare un campione del mondo, lo restituisce come distillato e amplificato, dopo averlo setacciato attraverso i filtri del proprio sentire”.

MICHELE DE LUCA