L’avvenimento violento, la ferocia del cane appena intravista nella concitazione della breve lotta avevano lasciato in Giuseppe un disagio, il timore di un oscuro pericolo, un desiderio di fuga. La mattina seguente telefonarono al comune di San Michele, il grande paese in pianura sulla riva del fiume, e disserro che avevano trovato Giuseppe e Maria

svenuti sul margine della strada provinciale, quasi nudi e con una valigia di cartone senza manico e completamente vuota, intirizziti ed illividiti per il gran freddo che sembravano morti, ma poi, non si sa come, si erano ripresi vicino al fuoco di una casa di campagna ed avevano dichiarato che stavano andando in America.

Bisognò andarli a prenderli con una macchina perchè nella notte avevano percorso quasi trenta chilometri e già durante il viaggio di ritorno la Guardia Comunale che li accompagnava si accorse che Giuseppe era malato, bruciava di febbre, non ci stava più con la testa e smaniava indipendentemente dalla paura che aveva avuta violenta al momento di entrare in automobile. Mi mandarono a chiamare; Giuseppe e Maria erano  iscritti nell’elenco dei poveri ed era quindi nei miei compiti di medico condotto curarli quando si ammalavano. Non fu possibile portarli a casa loro perché piuttosto che una casa parve essere, entrandoci, una spelonca, una tana. E nessuno se n’era mai accorto! Non c’erano solo le pulci, a migliaia, ma una puzza rivoltante e tutta la sporcizia, tutto il lerciume accumulati nel corso di tanti anni.

In un canto, dalle fascine di legna minuta, distese sul pavimento l’una accanto all’altra e coperta di stracci, formavano un misero giaciglio; nel resto della stanza non c’era più niente, una fanghiglia per terra con altri stracci e qualche vecchia scarpa, due o tre pentole ammaccate; né un tavolo, né una sedia. Furono sistemati in un "catuoio" là vicino e la notizia della fuga notturna e della malattia si sparse in un baleno. Fu allora che il paese intero, tutti insieme e ciascuno per suo conto me compreso, prese coscienza che Giuseppe e Maria non erano fantocci da spettacolo pubblico, ma esseri umani e che la loro umanità non poteva più essere ignorata.

Ci fu gara fra la gente: le donne pulirono e lavarono entrambi in una grande tinozza di creta per il bucato con la cenere; con olio e sapone riuscirono persino a disfare il casco di capelli sulla testa di Maria e ne vennero fuori capelli di un tenero grigio che paradossalmente la ringiovanirono; gli uomini nel frattempo spalarono il pavimento della casa, raschiarono i mattoni, bruciarono insieme alle fascine del letto ogni altra cosa che trovarono, il falegname rimise i vetri alla finestra, e non volle essere pagato dal Comune, i muri, neri di sporco e di fuliggine, furono imbiancati a calce.

In un primo momento bisognò superare le difficoltà delle iniezioni di antibiotico da fare a Giuseppe; quando vedeva la siringa si agitava per la paura e dovevano tenerlo fermo in quattro, ma in seguito escogitai di fingere un massaggio sui glutei che in realtà consisteva in schioccanti manate inferte a palmo aperto;


insieme alla quarta o alla quinta infilavo l’ago con l’altra mano e Giuseppe non si accorgeva di niente.

Fu così possibile somministrargli la penicillina ogni tre ore, come si faceva allora, per curargli la polmonite presa nella notte della fuga.

Ritornarono nella loro casa e c’era nel camino un gran fuoco acceso ed il letto aveva reti vere ed il materasso quasi nuovo, c’erano un tavolo e due sedie e la gente, a turno, portava da mangiare piatti veri, caldi e be cucinati, ed inoltre biancheria e vestiti e scarpe che sembravano nuovi. La primavera che venne fu splendida per Giuseppe e Maria che ripresero a girare per le vie del paese, entravano nelle case e nessuno li infastidiva più; continuava la gente a domandare a maria quando sarebbe nato il bambino, ma con nuova intenzione, con tenerezza, per farla gioire di quell’attesa. <<L’anno che vène!>> rispondeva e si portava sempre dietro lo scaraturo per riavviarsi ogni tanto i capelli.

Giuseppe, nella cerimonia della  “lavanda dei piedi“ il Giovedì Santo, fece la parte di San Pietro e si comportò bene quando Don Lorenzo gli bagnò e gli asciugò il piede. Le donne che lo avevano preparato lo guardavano con orgoglio tutto pulito e ben Poi fu periodo elettorale e qualcuno in Consiglio Comunale suggerì  che Giuseppe e Maria non avrebbero potuto trascorrere un altro inverno come quello appena passato, che non ce l’avrebbero fatta, che bisognava ricoverarli in ospizio. Tutti furono d’accordo; io lo venni a sapere, ma non potei oppormi non avendo motivi oltre che la conoscenza di un caso quasi simile accaduto al mio paese in Toscana: un poveretto, un certo Michele soprannominato il “Il Tocco“, che viveva come una fiera nei boschi, trovato ammalato per una strada di campagna, fu ricoverato anch’egli in ospizio e, privato della sua ferina libertà, morì subito di malinconia rifiutando il cibo.

Furono iniziate le pratiche con un importante istituto di Potenza ed il Consiglio Comunale deliberò di pagare la retta di ricovero per Giuseppe e Maria, finchè avessero vita. Essi andarono ignari di tutto, fra la gente che prometteva a Giuseppe di farlo sindaco alle prossime elezioni ed arrivò il giorno della partenza. Io lo vidi la sera prima e gli dissi, per scongiurare la sua paura dell’automobile, che sarebbero partiti il giorno dopo per l’America, con la macchina, che stessero calmi, tanto sarebbero tornati per votare. <<Io divento sindaco – disse Giuseppe rassicurato – e a te ti faccio vicecasì (vicesindaco) >>. Partirono e non tornarono più; in istituto furono separati e Maria fu la prima a morire.

Don Lorenzo e le Suore dell’Asilo si recarono un giorno da Giuseppe e lo trovarono seduto su una sedia a rotelle, stranito, assente che nemmeno li riconobbe. Morì anch’egli poco tempo dopo e non tornò più dall’America per essere eletto sindaco.

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