Indice articoli

IL CASTAGNO, IL SUO FRUTTO E LE SUE STORIE

Ai piedi del Pollino, fino a una quota di circa mille metri, il castagno è molto diffuso. La sua coltivazione ha origini piuttosto antiche. Insigni personaggi della Grecia antica ne esaltavano le proprietà benefiche già nel IV sec. a.C.. A Castronuovo di Sant'Andrea, in una località chiamata “Castagnaro”, non molto lontana dall'abitato, sono ancora presenti degli antichi castagneti che

un tempo appartennero alla famiglia Villani. Questa fino al 1893, con Giovan Battista Villani (marchese di Polla), detenne il titolo nobiliare di barone, ed ancora oggi si erge, maestoso e superbo, attualmente in fase di ristrutturazione, un grande palazzo gentilizio che fu di proprietà della famiglia.
Un antico detto contadino diceva che del maiale non si butta via niente, nei piccoli centri montani si potrebbe dire la stessa cosa del Castagno. Nel passato veniva utilizzato per i più diversi impieghi. Oltre al frutto, ne era molto apprezzato anche il legno per le sue ottime caratteristiche come leggerezza, tenacia, elasticità, e una spiccata resistenza agli agenti atmosferici. Veniva utilizzato non solo per costruire travi per solai, portoni, porte, finestre e mobili di vario genere, ma anche per costruire botti da vino, pali per vigneti, palizzate e grosse casse panche (“o' casciun'”) per contenere il grano.
Nei rioni antichi del paese, ci si può ancora imbattere in meravigliose porte di abitazioni, di magazzini e di grotte, realizzate con questo pregiato legno. Alcune di esse risalgono fino a circa quattro/cinque secoli. Al fascino delle porte antiche, testimoni di una civiltà passata o forse mai conosciuta, all'interno di questi locali, tra cassoni di grano, botti di vino e attrezzi contadini di vario genere, si può ora ammirare la straordinaria bellezza di oltre duecento presepi, provenienti da tutto il mondo, appartenenti alla collezione Vanni Scheiwiller che il 7 dicembre del 2014 è stata trasformata nel Museo Internazionale del Presepio, attualmente dislocato nella “Manca”, uno dei rioni più antichi e affascinanti del paese.
Il diffuso utilizzo del legno di castagno, però, durante gli anni ha fatto sì che queste maestose piante venissero abbattute. Infatti quando il fusto raggiungeva un diametro soddisfacente e quando si iniziavano a intravvedere i primi rami secchi, la pianta era considerata pronta per essere abbattuta. Oltre al legno del tronco, che veniva utilizzato per i lavori di falegnameria, veniva adoperato anche il legno dei rami come legna da ardere. Quest'ultima veniva esclusivamente usata per alimentare il fuoco del forno, essendo profumata e quindi capace di conferire agli alimenti cotti, specie al pane, un aroma particolare, ma anche per il fatto che una volta in fiamma scoppiava e quindi era considerata non adatta e pericolosa per il fuoco che si faceva negli appositi focolari di casa.
Gli alberi tagliati avevano la capacità di riprendere il processo di vegetazione e quindi di riprodursi in nuovi fusti. I polloni più teneri venivano utilizzati per alimentare gli animali, specie le capre. Anche le foglie secche erano utili, venivano infatti adoperate come giacigli nelle stalle, e talvolta venivano anche usate come surrogato del tabacco da fumo. Dai ricci e dalla corteccia, molto ricchi di tannino, messi a bollire nell'acqua, si ricavava un estratto con il quale si tingevano i tessuti e si conciavano le pelli. Ma sicuramente il prodotto più pregiato e più ricercato erano i frutti. La raccolta avveniva tra ottobre e novembre. Tutte le mattine ci si recava nel castagneto per raccogliere i frutti caduti, e si sperava, a volte, quasi si invocava, che durante la notte ci fosse vento. Per alcune famiglie rappresentavano una vera e propria fonte di reddito. Ci si recava nei paesi vicini sprovvisti di castagneti, specie a Sant'Arcangelo e a Senise, per venderle o per barattarle con altri prodotti. Venivano vendute sia fresche che cotte (arrostite nei forni o bollite). Il sistema di misura per il baratto era la “fuscella” dei formaggi: una “fuscella” di castagne equivaleva a una “fuscella” di legumi o di cereali come ceci, fave, fagioli o grano. Si racconta che durante la vendita si formavano lunghe code di persone. Per la vendita, poi, si usava confezionarle anche in collana. La tecnica consisteva nell'infilzare le castagne con un filo, e poi chiuderlo ad anello.
Castronuovo di Sant'Andrea, oltre alle castagne, era rinomata anche per la produzione dei lupini, che venivano coltivati proprio intorno ai castagni, dove il terreno risultava particolarmente adatto per tale coltivazione.
Le castagne una volta raccolte era necessario farle arrivare sane almeno fino a Natale, e per tal fine si conservano sia crude che cotte al forno. La tecnica di conservazione per quelle crude consisteva nel sotterrarle in una fossa e ricoprirle di sabbia di fiumara (“ccà reni' du' pitreri'”). Nel periodo natalizio venivano poi tirate fuori, bollite, e con la polpa, privata di buccia e pellicina, si realizzava una crema che si utilizzava come ripieno per i rinomati “calzoncelli” di Natale (“o' cauz'niell' ccò castagni''”). Gli ingredienti della crema erano le castagne, lo zucchero, la cannella, i chiodi di garofano e la scorzetta di mandarino o di arancia. Negli anni avvenire si aggiunse il cioccolato fondente e il cacao, che ne esaltarono maggiormente il sapore.
Un sostituto delle castagne erano i ceci, usati soprattutto da chi non poteva disporre delle castagne. Ricordo che il giorno di Natale, quando ci si riuniva in famiglia per il pranzo, le due nonne, quella paterna e quella materna, portavano entrambe i “calzoncelli”, ma preparati con ingredienti differenti. Nonna Maria che aveva la masseria più a monte, a Caliuvo, una località ricca di castagni, usava preparare la crema rigorosamente con le castagne, mentre nonna Lucia avendo la masseria a Battifarano, più a valle, verso il Serrapotamo, la preparava con i ceci. Ed era meraviglioso, quasi surreale, assaggiare entrambe le specialità, e ascoltare poi i complimenti che ognuna delle nonne faceva all'altra: “Marì, e cum' sap'n' st' cauz'niell' ch'ai fatt'”, e l'altra: “Lucì, a' mmì mi sap'n' chiù megli o' toi'” (“Maria, come sono buoni questi calzoncelli che hai fatto”, e l'altra: “Lucia, a me sembrano più buoni i tuoi”. La pasta che racchiudeva il ripieno consisteva in un impasto di farina di carosella, uova, zucchero, vino bianco, olio oppure sugna. La forma dei “calzoncelli” era rettangolare, all'incirca di 10 x 7 cm. Venivano fritti nell'olio e poi cosparsi di zucchero. Insieme alle “crispelle”, ai “guanti” e “a' ciciret'” erano i dolci tipici di Natale, che non potevano assolutamente mancare sulla tavola.

L'altra tecnica di conservazione consisteva nel cuocere le castagne nel forno e una volta raffreddate riporle nei sacchi di iuta. Al momento del bisogno venivano tirate fuori e bastava riscaldarle sul fuoco per farle ritornare morbide. Per il consumo immediato, invece, venivano arrostite nel fuoco, sotto la cenere cosparsa di brace. Prima però andavano incise, altrimenti durante la cottura esplodevano, e spesse volte, quando ci si riuniva numerosi intorno al fuoco e si aspettavano le castagne messe ad arrostire, per ravvivare la serata e farsi due risate, se ne lasciava appositamente qualcuna non incisa per farla esplodere e cogliere nello spavento alcuni degli invitati. Per sapere quando erano cotte, se ne tirava fuori una e ci si batteva sopra con con la paletta; se al colpo scricchiolava significava che erano pronte per essere mangiate. Un altro metodo, spettacolare e veloce, con il quale si arrostivano le castagne era “a' fuliciet'” (la “feliciata”), usato particolarmente dai pastori quando conducevano gli animali al pascolo. Il rito, poi, si ripeteva puntualmente il primo novembre, in coda al rito religioso ufficiale della commemorazione dei defunti curato dal sacerdote e con i parenti stretti dei defunti. E così la mattina i ragazzi si svegliavano all'alba, perché vogliosi di andare a fare, dividendosi in gruppi, la così detta “fuliciet'” (“feliciata”).

La tecnica consisteva nel predisporre diversi strati di felci e ginestre secche, sopra i quali si riponevano le castagne, fino a formare un bel cumulo alto, al quale poi si dava fuoco. Quando il fuoco terminava, le castagne si ritrovavano tutte a terra, cotte al punto giusto e pronte per essere mangiate.

La denominazione è stata erroneamente riferita al nome “Felicia” (in dialetto “Fulic'”), mentre con ogni probabilità deriva dalla tecnica di arrosto mediante il fuoco delle felci secche. Questa doverosa precisazione terminologica serve, tra l'altro ad allontanare il sospetto di un assurdo accoppiamento di un giorno di chiara tristezza con un'immediata esplosione di gioia connessa con l'arrostimento delle castagne e il gioioso consumo delle caldarroste.
Nel secondo dopoguerra, purtroppo, i castagneti sono entrati in una fase di decadimento, sia a causa dell'abbandono delle terre, con la conseguente fuga al Nord, con la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, sia per colpa di due parassiti che hanno provocato nei castagneti gravi epidemie (il mal dell'inchiostro e il cancro corticale) che hanno indebolito le piante fino a farle morire. Negli ultimi trent'anni, per fortuna, grazie ai risultati ottenuti nella lotta contro queste malattie, si sta assistendo a una ripresa d'interesse verso questi meravigliosi alberi e i loro frutti. Notevoli successi si sono ottenuti grazie all'innesto con una varietà giapponese, la Castanea crenata, resistente a entrambi i parassiti.

La coltivazione del castagno rappresenta quindi un'altra coltura dalla quale l'economia locale non potrebbe altro che trarre giovamento, nel pieno rispetto delle tradizioni e dell'ambiente. Insieme a una corretta e intelligente gestione dei boschi, sfruttandone in modo sostenibile tutte le risorse (funghi, tartufi, frutti di bosco e quant'altro), e anche insieme a un'agricoltura sempre più attenta a custodire la biodiversità, le tradizioni e la salubrità ambientale, si creerebbero quelle condizioni favorevoli utili per valorizzare l'intero territorio, facendolo diventare un luogo attraente ed ospitale, dove il turismo esperienziale, specie quello internazionale, diventerebbe di casa. E sarebbe davvero una bella scoperta, come appunto recita lo slogan dell'Azienda di Promozione Territoriale della Basilicata.

“Il miglior modo per predire il tuo futuro è crearlo!”
Abraham Lincoln

Fotografie e testo: Silvano Di Leo