La memoria di Lacedonia (Avellino) in un libro e una mostra
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”; così scriveva Cesare Pavese in La luna e i falò (1950). Sono parole che ci sono tornate in mente ricordando la
storica esperienza vissuta in simbiosi da Cesare Zavattini e Paul Strand quando nel 1953 si dedicarono alla preparazione di un libro (Un paese, Einaudi, 1955) su Luzzara, un paese italiano di cui non è il ‘pittoresco’ che coinvolge, ma l’Italia non retorica della gente, delle silenziose atmosfere tra sentimenti di umanità antica e dignità.
A questa lezione ideale e culturale, di matrice neorealista, e ad un filone che ebbe al centro, per quanto riguarda il nostro Meridione, le esperienze di fotografi come Federico Patellani, e il forte impulso che vi diedero le ricerche antropologiche nelle “terre del rimorso” di Ernesto de Martino, nelle cui “spedizioni” coinvolse i fotografi Franco Pinna e Arturo Zavattini, impegnati a documentare il Mezzogiorno italiano in quegli anni. Ed è a quella irripetibile stagione del dopoguerra italiano e al fervore culturale che la pervase, che va collocata la figura e l’opera dell’antropologo e fotografo statunitense Franck Cancian (Stafford Springs, Connecticut, 1934), di genitori italiani, al quale ha dedicato una mostra il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari “Lamberto Loria” di Roma, curata da Francesco Faeta, sulla sua indagine fotografica (che è anche un taccuino intimo, un viaggio a ritroso nella memoria) da lui effettuata nel 1957 in Irpinia, le cui immagini originali sono conservate presso il MAVI - Museo Antropologico Visivo Irpino di Lacedonia (Avellino), inaugurato il 9 agosto proprio con la partecipazione di Cancian, di cui ha pubblicato il libro Lacedonia, un paese italiano, 1957. Come ha detto a Michele Fumagallo (“Il Manifesto/Alias” del 20 novembre) Rocco Pignatiello, curatore del libro, nonché protagonista di questa importante iniziativa del Mavi di Lacedonia, “Lo sguardo di Cancian è libero da pregiudizi e da stereotipi. Con la sua macchina fotografica si avvicina alle persone con grande curiosità, col desiderio di scoprire, con il gusto di catturare immagini, ma anche con grande rispetto. Non guarda quel mondo mettendosi al di fuori o al di sopra, tipico di chi pensa di essere superiore all’altro, ma coglie l’altro nella sua autonomia. Le foto di Frank Cancian, anche se scattate quasi sessant’anni fa, ci emozionano e ci parlano ancora oggi, ma ci spingono anche a riflettere sulla storia di quegli anni. Lì sono le radici del nostro presente. Da lì bisogna ripartire se si vuole progettare il futuro”.
Si tratta di scatti da lui realizzati quando, studente ventiduenne , grazie a una borsa di studio del Fulbright Program soggiornò per sette mesi a Lacedonia “per capire come le persone vivevano e per fotografarne la quotidianità”, entrando nel pieno della vita stessa del paese, con il risultato di esplorare tutti gli aspetti del vivere di una comunità rurale nel momento cruciale delle sue trasformazioni, quando, cioè, il processo di industrializzazione, il consumismo e l’abbandono della campagne erano già avviati.
Esaurito il soggiorno italiano, Cancian fece ritorno alla Wesleyan University sul finire del 1957, desideroso di mettere ordine nei suoi materiali e di proseguire 'attività fotografica. Approfondì la tecnica fotografica presso il Davidson Art Center, influente articolazione della stessa università, diretto allora da Samuel Adam Green, un talentuoso curatore d'arte contemporanea, figlio del preside della Facoltà di Belle Arti, tra gli iniziali promoter della pop art americana e, in particolare, del primo Andy Warhol. Qui ebbe l’opportunità di conoscere Edward Steichen, che lo incoraggiò a realizzare la prima esposizione delle immagini realizzate in Italia.
Dopo varie frequentazioni in ambienti universitari, giunto ad Harvard, forte dell'esperienza di studio relativa ai nativi americani che aveva realizzato negli anni precedenti, condotta con il determinante impiego della fotografia, approdò presso il Department of Social Relations e presso Evon Zartman Vogt, Jr. Questi, lo indirizzò a lavorare in Chiapas, accanto ad altri suoi allievi di prestigio, dopo averlo inizialmente mandato, per familiarizzarsi con le lingue native (Nàhuatl e Tzotzil), a San Cristobal de las Casas.
In Chiapas, Cancian trovò il suo stabile terreno di ricerca e proseguì il suo lavoro con la macchina fotografica innanzitutto sulle zone del Messico oggetto della sua ricerca antropologica, in particolare sui Maya e sulla comunità di Zinacantan. Il suo lavoro è in parte restituito nei libri fotografici da lui prodotti, mentre dei suoi studi di antropologia egli ha reso conto in numerosi saggi in volumi e apparsi su accreditate riviste. “Sono un fotografo documentarista, con un punto di vista. – ha detto Cancian - Preferisco le cose ordinarie, cose che non sono ufficialmente importanti. Durante la registrazione del mondo quotidiano cerco spesso l’esotico in situazioni ordinarie e l’ordinario in ciò che molte persone vedono come esotico”. La descrizione fotografica di Cancian, ancorata alla fotografia sociale americana, nitida e rigorosa nel suo realismo critico, si apre però anche a sperimentazioni per l’epoca impensabili.
Michele De Luca
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