Un tempo, non molto lontano, nelle case dei contadini i fichi non potevano assolutamente mancare. La raccolta iniziava già a fine agosto, per farne grande scorta che veniva consumata nell'arco di tutto l'anno. Quelli rossi, “i fichi troiani”, affinché si potessero conservare venivano passati nel forno a legna, di solito subito dopo aver sfornato il pane.
Era il momento in cui la temperatura del forno era perfetta per cuocere i fichi. Erano però necessari più passaggi per renderli bene caramellati, ma soprattutto per favorire l'eliminazione dell'acqua ed evitare così che si ammuffissero durante l'inverno.
Quelli bianchi, invece, “i fichi grossi”, venivano essiccati al sole sopra delle “spase” rettangolari, costruite appositamente per quell'uso con i rami di ginestra o con quelli dei rovi. In questo caso bisognava stare molto attenti a non farsi sorprendere dalla pioggia. Se si bagnavano potevano diventare neri e si rischiava che si potessero ammuffire durante l'inverno. L'arduo compito di
non farli bagnare veniva affidato ai giovani, che al minimo sospetto di pioggia si dovevano affrettare a metterli al riparo della pioggia. Con i fichi essiccati al sole venivano fatte le “scarcelle”. La tecnica di realizzazione della “scarcella”consisteva nell'infilzare i fichi essicati, uno ad uno, con dei bastoncini di canna comune, fino a formare un rombo o un triangolo. Ai tempi delle masserie del barone di Giura, si dava un premio al contadino che realizzava la “scarcella” più bella e più grande. Si racconta che "cumpa' Pepp' a' muscariell'" (Peppino Cirigliano) ne realizzò una talmente grande che riusciva a coprire, da una parte all'altra, "o' dui spirtun' du ciucc'" (i due cestoni dell'asino).
Sia di quelli cotti nel forno a legna che di quelli essiccati al sole si riempivano interi cassoni di legno, e durante i lavori in campagna si davano da mangiare con il pane. La tavola non era completa se non c'erano anche i fichi. E una volta finito il lavoro, ad ogni bracciante veniva riempito uno “stiavucco” (strofinaccio) da portarsi a casa.
A Castronuovo di Sant'Andrea, che sorge nel Nord del Parco Nazionale del Pollino, sono presenti ancora tantissime antiche varietà di piante di fichi. Sono particolari e simpatici i nomi attribuiti alla pianta, che in dialetto è al femminile: "a' fica' ianch', a' fica' gross', a' fici' pilusell', a' fica' gattarol', a' fica' trien', a' fica' add-òm' n', a' fica' natalin', ..." .
Ed è anche molto bello e simpatico questo scioglilingua:
"Nchien' e scenn' da sta' fich'
nu' paneri' di frutt' e fich'.
Uni' di frutt', uni' di' fich' nchien' e scenn' da sta' fich'!"
"Sale e scende da quest'albero di fico un cesto di frutta e fichi.
Uno di frutta, uno di fichi
sale e scende da quest'albero di fico!"
Per fortuna le varietà autoctone presenti nel territorio non hanno nessun impatto negativo sull'ambiente, si lasciano coltivare naturalmente. Al momento sembra che non ci siano nemmeno tanti insetti nocivi, c'è solo qualche uccello che ne va ghiotto, specie il merlo. La coltivazione del fico potrebbe dunque essere un ottimo investimento per una “Nuova Agricoltura Sostenibile” per tutto il territorio del Parco Nazionale del Pollino.
Silvano Di Leo
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